DE GIOVANNI LUIGI a FIRENZE

DE GIOVANNI LUIGI a FIRENZE
La galleria Mentana di Firenze, in prossimità delle feste natalizie, come ogni anno, il giorno 16 dicembre 2023 dalle ore 17,00 alle ore 20.00 terrà l’opening di “Orizzonti Contigui” Rassegna di Artisti Internazionali che animerà lo spazio sito nel cuore di Firenze, in via della Mosca, 5. Orizzonti Contigui Attraverso le opere in mostra è possibile immergersi nelle descrizioni di pensieri, idee e sensazioni che danno luogo al mondo degli artisti presenti che, nella realizzazione delle opere, hanno trovano l’occasione per avventurarsi nelle sfaccettature della natura fatta di paesaggi e di atmosfere, per ritrovarsi nel mondo della fantasia o nelle problematiche dei percorsi dell’uomo, fino ad attraversare riflessioni o sogni che muovono dall’Io o dalla religiosità. Colori, pennellata e percorsi capaci di trasmettere il mondo della bellezza e delle contraddizioni dell’uomo che è sempre alla ricerca di quei valori che danno senso alle opere di questa bellissima rassegna artistica. L’evento sarà anche occasione per scambiarci gli Auguri di Natale. Artisti presenti in Mostra: Eva Breitfuss - Audrey Traini - Lis Engel – Giancarlo Cerri – Aldehy – Bianca Vivarelli – Krasimir S. Marinov – Eileen Herres – Valerio Tanini – Tina Hliblom-thibblin - Camilla Vavik Pedersen – Patrizia Pepe – Luigi De Giovanni – Salvatore Magazzini – Anna Lapshinova Galleria d’Arte Mentana Arte Moderna e Contemporanea Via della Mosca, 5r
50122 Firenze (Italia)
Telefono/Fax: +39 055 211985
Cellulare: +39 335 1207156
Email: galleriamentana@galleriamentana.it
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domenica 23 aprile 2023

Riflessioni sulla Tragedia a Specchia

 



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Riflessioni sulla Tragedia a Specchia

Quando ho iniziato a frequentare Specchia, sin dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso, ho sentito parlare dell’eccezionale evento della Tragedia che veniva rappresentata ogni quindici anni, grazie all’impegno di molti cittadini che si calavano nelle varie parti interpretandole con fede, fervore e con i mezzi stilistici e tecnici che si avevano a disposizione. I cittadini, attori dilettanti, venivano così investiti dall’alto compito di far cogliere al pubblico il significato del sacrificio di Gesù al fine della salvezza degli uomini. Ho sentito i racconti dell’espressività genuina e partecipata riguardanti alcuni attori che nelle vesti di Lucifero e dei diavoli tuonavano con voce potente nell’interpretazione dei progetti maligni assegnati dal ruolo; fiamme infernali create con luci rosse che si innalzavano a dare maggiore credibilità alla scena: in questo senso mi ha molto incuriosito l’uso di polvere di pece, lanciata sapientemente sul fuoco, per creare fiammate infernali. Ho conosciuto Valeria Polimena, una gentile signora, che mi ha raccontato di quando interpretò l’angelo volante dopo essere stata ancorata con delle corde, grazie ai marchingegni fatti di sana pianta da suo padre, che la fecero arrivare dall’alto nella scena proprio nel momento opportuno. Mi hanno narrato del palco creato di volta in volta con precisione dagli artigiani del paese che, con strumenti rudimentali, facevano miracoli sino a fabbricare fondali e quinte, dipinti con cognizione, che scorrevano puntualmente al momento programmato, dando pienamente l’idea della scatola scenica che diventa il palco nelle rappresentazioni teatrali. Ho ascoltato i racconti sulle varie e differenti interpretazioni del tradimento di Giuda che lo condurrà alle terribili pene dell’inferno, sull’opportunismo di Caifa, del sinedrio e di Ponzio Pilato, sulla cattiveria del cieco Longino e del centurione che poi si pentirono confidando nell’infinita misericordia di Dio sino a professare la fede con umiltà sulle tre donne così partecipi che pareva avvertissero profondamente il dolore e piangenti si disperavano seguendo Gesù: fra loro emergeva chi si calava nelle vesti di Maria in tutta la sua sofferente maestà di madre addolorata. Gli attori interpreti dilettanti di Gesù, l’Agnello Sacrificale, erano così convinti che nella recitazione trovavano in loro la fede che li portava al dolore dell’Uomo figlio di Dio rassegnato alla volontà del Dio Padre per far dono agli uomini del perdono e della salvezza. I racconti e i giudizi sulle interpretazioni della meschinità del Sinedrio e di Ponzio Pilato che amministravano la giustizia nell’ingiustizia e nell’egoismo sino alla condanna di Gesù. Mi avevano raccontato che il testo originale, risalente all’ottocento e rappresentato nel 1838 per la prima volta, essendo troppo lungo e molto impegnativo, venisse suddiviso e rappresentato in due giorni, questo fece sì che fosse adeguato e ridotto per poter fare in modo che tutto si rappresentasse in circa tre ore.  

Ringraziando la Pro Loco, il Comune di Specchia e Temenos, il regista e tutti gli attori e i tecnici, finalmente, dopo aver ascoltato i racconti e i giudizi delle edizioni più recenti, ho avuto la fortuna d’assistere e vivere “La Tragedia”. 


Sapevo che sin da ottobre un gruppo di persone, sotto la guida del perfetto regista Marco Antonio Romano, era impegnato nella preparazione dell’edizione 2023 della Tragedia di Specchia. Curiosa come non mai ho avuto il piacere di seguire una delle ultime prove che mi ha predisposto molto positivamente a voler assistere, nonostante il freddo intenso, alla bellissima edizione di quest’anno. Mentre seguivo, molto interessata, immaginavo le preoccupazioni degli attori e di tutti gli operatori, le ansie per le possibili défaillance o per il mal funzionamento dei mezzi tecnici ma niente d’importante, che potesse pregiudicare la buona riuscita della rappresentazione, si è verificato. Qualcuno, ricordando le edizioni passate, può aver sentito la mancanza di scenografie conosciute ma a me tutto è apparso meravigliosamente bello. Infatti, pur non essendoci il classico allestimento scenico e la tanto amata fiammata infernale, ho molto apprezzato questa edizione perché il gioco di luci rendeva il clima molto attinente e giusto: quasi magico. La rappresentazione viene annunciata da un sottofondo musicale e dal coro, sotto la direzione di Deborah De Blasi, Claudia Procula solo voce, che suggeriscono una malinconia e una dolcezza inusitata. Un violino pare voler accentuare queste mie sensazioni. L’attesa comparsa di Lucifero, maestoso principe degli inferi, ci mette davanti alla bravura di un molto convincente Santino Giangreco che recita con sicura dizione e competenza. L’arrivo di Giovanni Santoro nelle vesti di Astarot e di Enza de Rinaldis in Asmodeo hanno evidenziato i progetti maligni in un’interpretazione perfetta, con balzi, movenze e toni di voce a volte alti e aggressivi che calavano per segnare maggiormente le intenzioni. La scena, esaltata da luci capaci di suggerire climi infernali, è coerente con l’intenzione del testo. Quest’atmosfera mi ha fatto pensare ai racconti riguardanti le precedenti edizioni dove proprio a questo punto molti bambini terrorizzati piangevano promettendo d’essere buoni al fine d’evitare le fiamme infernali: non so se i bambini di oggi siano ancora così timorati. Le preoccupazioni di una intensa e amorevole Maria sono rese dalla capacità di Laura Boccadamo di appropriarsi della parte e di rivolgersi al figlio Gesù, un Luigi Ricchiuto sublime, sapendo dar espressività al momento di drammaticità e sentimento che si stava vivendo. Nell’efficace interpretazione di Giuseppe Giangreco il discorso di Giuda, che ascolta l’insinuante e persuasivo Astarot, mi fa pensare all’attualità dove pare che solo la ricchezza abbia importanza e per questa si è disposti a tutto. La rappresentazione si fa sempre più denuncia delle debolezze degli uomini che spesso esercitano la giustizia nell’ingiustizia come nel sinedrio (Enzo Pizza, Gianfranco Masciali, Franchino Caloro, Franco Pizza, Nicola Baglivo il cui sforzo per migliorare la sua dizione e nel calarsi nell’apostolo Raban ha dato buoni risultati in scena e infatti ha mostrato d’aver completa padronanza della parte e atteggiamento e recitazione consona, Alessio Giuliano, Tommaso Fiorentino). Un altero Caifas (Alberto Branca) fa pensare alla paura di perdere il potere, agli errori di valutazione che ancora oggi capitano per opportunismo, interesse o superficialità: anche nella tragedia emerge questo e infatti a nulla sortisce la difesa di Gesù fatta da Giuseppe D’Arimatea, l’espressivo Fernando Branca. Infatti Caifas, sollecitato dalla maggior parte dei sacerdoti che vogliono la morte di Gesù, ne comanda al centurione l’arresto. Il centurione, un deciso e imperioso Giorgio Biasco, dà disposizione ai soldati affinché vengano eseguiti gli ordini del gran sacerdote. A palazzo c’è aria di intrigo infatti il centurione e Giuda contrattano il tradimento. I trenta denari, d’argento, risuonano mentre passano di mano e il che ci riporta ai nostri giorni dove nella società dell’apparire facilmente per soldi si compiono le peggiori iniquità. Si battono i denti per il freddo ma la rappresentazione prosegue e gli attori, che appaiono convincenti e sicuri nei ruoli, si muovono senza titubanza nello spazio scenico minimale: creato con elementi essenziali e luci significative. L’ultima cena, in piedi come nei moderni buffet, è molto convincente e di grande intensità, sublime è il momento in cui Gesù spezza il pane alzando le braccia al cielo divinizzandolo nel più grande significato del corpo di Cristo. L’angelo, Ilenia Brugnara, appare amorevole nel parlare a Gesù che nello scoramento è conscio di dover accettare il calice amaro che lo porterà all’eterna vittoria. I tradimenti son compiuti e il perfido diavolo trama per la salvezza di Gesù e l’albero, quasi minaccioso, incombe sul traditore Giuda un perfetto, nell’interpretazione, Giuseppe Giangreco che sino alla fine si è calato negli stati d’animo della perdizione. Sublime è stato il discorso, intriso di profonda emozione, che fa Gesù ai suoi discepoli facendo si che Luigi Ricchiutto emerga come attore consumato capace di affrontare una parte dove gli stati d’animo sono alla base del ruolo. Che dire poi dei tradimenti quasi annunciati negli atteggiamenti dell’interpretazione di un insicuro e titubante Pietro, reso nel migliore dei modi da Giuseppe Antonazzo o del mite Giovanni, che Luigi Pecoraro fa rivivere in modo eccellente, stando sempre vicino a Maria che pare soffrire realmente per il supplizio patito da Gesù addolorato che preconizza tradimenti ed eventi. Nella scena cinque dell’atto secondo le tre donne recitano in modo esemplare ed emerge il dolore di una madre che cerca giustificazioni e implora rivolgendosi a Giuda, a Giovanni e a Pietro mentre Maddalena e Marta, che hanno due perfette interpreti in Ilaria De Giorgi e Sonia Cardigliano, cercano di consolarla esortandola alla rassegnazione. In questa accorata scena troviamo il dolore di ogni mamma che deve accettare la perdita del proprio figlio. Intanto un incerto Pietro, che rinnega Gesù, si rivolge a Samuele, un Luigi Musio che riesce ad essere convincente e sprezzante al pari di Ancilla, Maria Teresa Panarese e Malco, Francesco Giunca, tutti sempre all’altezza del ruolo.

Giuda ragiona e riflette sul suo tradimento e nel dialogo con Asterot viene fuori una coinvolgente scena di teatro d’alto livello perché i due interpreti danno l’anima per essere persuasivi e calarsi nei ruoli. Nel dialogo di Pietro con Asmodeo i due interpreti sanno far cogliere la perfidia sottile del diavolo che riesce a creare incertezze nel già titubante traditore Pietro che fa avvertire il pentimento, il senso di colpa e la disperazione. Una scena dinamica che viene esaltata dalle luci dirette con molta precisione ad evidenziare con efficacia un’atmosfera campestre. 

Nella città ,intanto, Giuda, colpevolizzato dall’insidioso Asterot, paventando la triste sorte che lo aspetta, è un Giuseppe Giangreco che riesce ad essere sempre sul testo in modo impeccabile: trasmettendo al pubblico ripensamenti, dubbi e preoccupazioni per l’atto che si accinge a compiere. Una scena drammatica dove i due magnifici attori sanno calarsi nel migliore dei modi nei personaggi sino a rendere gli stati d’animo e la situazione di Giuda, prigioniero delle trame diaboliche, veramente convincenti. 

Nella reggia, Francesco Corchia che interpreta Pilato appare realmente  sicuro nel ruolo che lo porta a condannare Gesù, nonostante i suggerimenti di Asterot, un sempre bravissimo Giovanni Santoro che ha saputo recitare con convinzione, come vuole il popolo sobillato dai sacerdoti e come espressamente chiesto dal Centurione, interpretato da Giorgio Biasco in grado di calarsi perfettamente nell’essenza del personaggio mostrando fermezza anche nell’immedesimarsi nelle vesti d’un cattivo soldato  che è  capace però di non cedere ai consigli di Asterot. Giorgio è stato puntuale in ogni momento della sua parte, simulando il pentimento e la rinuncia agli agi del suo stato che solo la misericordia di Dio sa significare.

Nello spazio della scena le luci, i costumi e i simboli ci conducono alla Reggia dove ha inizio il supplizio di Gesù e qui che la capacità di Luigi Ricchiuto diventa espressività pura nel raccontare gli eventi. Giovanni in uno struggente monologo occupa tutta la scena seconda dell’atto quarto e qui Luigi Pecoraro dà il massimo. 

I climi cambiano e il dolore di Maria, che assiste alla mortificazione del figlio, è così reale che fa di Laura Boccadamo un’attrice abile nel calarsi nel dolore e nei sentimenti sino a far percepire la santità della Madonna madre di tutti. In lei ho visto grande attitudine interpretativa e soprattutto la rappresentazione della sofferenza accettata di una madre vera. La madre di tutti ha avuto con lei un’espressività coinvolgente e attinente alle esigenze del testo. Un essenziale, ma d’una bellezza struggente, calvario, giusto nell’atmosfera, è reso con una croce priva d’ogni orpello dove Gesù di Luigi Ricchiuto, vestito con una leggera e corta tunica bianca, ci trasmette il dolore e il senso del perdono. Qui il cieco Longino è interpretato da Silvano Maisto che riesce con convinzione ad esprimere rabbia e cattiveria nel colpire Gesù, subito dopo, è capace di calarsi, in modo convincente, nel pentimento di chi, miracolato, si converte sino a vivere la fede con amore palesando la grandezza della misericordia di Gesù. Vorrei scrivere tanto sulle sensazioni trasmesse dall’infreddolito e sofferto Luigi Ricchiuto nelle vesti di Gesù in croce deriso e umiliato. Luigi ha dato una grandissima prova calandosi nella sofferenza e nella misericordia, che ha emozionato e coinvolto tutti i presenti. L’intonazione delle sue angosciose parole è stata così coinvolgente che ha commosso gli spettatori capaci di un lungo e sentito applauso che riporta alla festa di risurrezione. Ho ascoltato ed apprezzato la poesia e la dolcezza del canto di Roberta Branca, interprete della Veronica, che asciuga amorevolmente Gesù con il panno di lino. Mi ha incuriosito parecchio Ilaria De Giorgi nelle vesti di Maria Di Magdala perché anch’io ho avuto la ventura di posare per Luigi De Giovanni quando fece un’opera sulla Maddalena al santo sepolcro. Ho visto le ansie di Ilaria e ho ricordato le mie, ho visto il suo amore per Gesù e mi sono rivista stanca della lunga posa e poi triste quando l’opera venne venduta al prezzo giusto o meglio per me svenduta perché ritenevo che quell’opera bellissima non avesse prezzo. Brava Ilaria sei stata capace di vivere Maria di Magdala nel migliore dei modi. 

Gli angeli appaiono quasi in punta di piedi e si avverte l’accuratezza nello studio di Caterina Greco e Greta Sanapo che con tenerezza sentita, mesti e consolatori donano quella poesia angelica che solo i bambini sanno trasmettere. Tutto porta alla misericordia di Gesù. La sofferenza di chi lo ha interpretato non è solo una finzione scenica perché, sicuramente, nelle gelide notti di questa Pasqua ha realmente tremato e sofferto il freddo. Anche gli attori che hanno avuto parti minori si sono rivelati precisi nell’interpretazione e negli atteggiamenti dimostrando che insieme si possono raggiungere grandi risultati e che in una rappresentazione anche una sola battuta è indispensabile al fine di un’ottima riuscita, in questo caso la Tragedia di Specchia ecco perché mi fa piacere ricordare tutti i loro nomi: Malco Francesco Giunca, Alciste Daniele Indino, Ripas apostolo Franco Pizza, Teras giudeo apostolo Enzo Pizza, Nicodemo apostolo Tommaso Fiorentino, Potifar giudeo apostolo Francesco Caloro, Josafat giudeo apostolo Gianfranco Masciali, Ancilla Maria Teresa Panarese, Diaribas giudeo apostolo Alessio Giuliano, giudeo e apostolo Gino Vincenti, Samuele servo e apostolo Luigi Musio. 

Che dire poi della regista che ha diretto magistralmente la rappresentazione dando significato all’impegno di tutti gli attori, che si sono presentati in scena sempre con abbigliamento idoneo alle situazioni, ai ruoli e al periodo. Anche le sue scelte sceniche, che potevano creare sconcerto, si sono rivelate efficaci e convincenti.  

Nella speranza che questa compagnia teatrale possa regalarci nuove rappresentazioni complimenti a tutti: attori, regista, collaboratori e organizzatori.   

                           Federica Murgia



giovedì 21 maggio 2020

IL SILENZIO DELLA SOLITUDINE

Il silenzio della solitudine








Il silenzio della solitudine porta l’artista a riannodare i fili dei suoi pensieri per ancorarli nella memoria e farli riemergere nel momento creativo in climi che raccontano dialoghi interiori: angosce esistenziali o ricerca di sprazzi di aspettative che necessitano d’essere fissate per uscire dai tormenti. Grovigli di sensazioni s’incrociano in racconti che trovano le linee conduttrici in garze che, ricoprendo antiche canape o fili del ricordo, suturano le ferite del tempo che ha deluso i sogni. Per l’artista la ricerca dell’Io si fa urgente in pennellate e segni che vogliono ammantare lo smarrimento creato dagli eventi. Così i fogli si riempiono di filati e colori; di storie che sgorgano accavallandosi e saldandosi precipitosamente sino trovare la conclusione in una catarsi che porta Luigi De Giovanni a sprofondare nei meandri dei suoi turbamenti per ritrovarsi in sensazioni di pacato rasserenamento: di sottile gioia di vivere. I racconti si librano e i fogli prendono vita su stenditoi che attraversano lo spazio seguendo il ritmo di una brezza di speranza che va oltre il tempo per dare, finalmente, voce al silenzio della solitudine. 

21 luglio 2018                                    Federica Murgia

domenica 5 aprile 2020

ANNO DOMINI

Anno domini. Fuga… dalla metafisica di Antonietta Fulvio


Anno zero. Anno Domini. Comunque lo si voglia chiamare, l’inizio della cronologia coincidente con la nascita di Gesù Cristo segna un passaggio epocale. Spartiacque tra vecchio e nuovo, fu l’inizio del crollo della Roma imperiale che non riuscì gestire il cambiamento sociale derivante dalla diffusione del Cristianesimo. Sulla scia di queste riflessioni sulla Storia, e su alcune tra le pagine più importanti del Nuovo Testamento, nel suo atelier a Specchia, Luigi De Giovanni si sofferma a parlare mentre lentamente la tela bianca sul suo cavalletto si riempie di segni... simboli, caratteri...colori. 
Appena un mese fa ha concluso una personale inaugurata per la Giornata del Contemporaneo dal titolo Tracce. Era partito da un’indagine sull’evoluzione di oggetti radicalmente modificati dal progresso tecnologico e usati, attraverso anche il recupero della memoria contadina, come pretesto per riflettere sulla società. Il passato e il presente. Ma al centro sempre e solo l’uomo, comunque artefice del proprio destino ma anche strettamente legato agli altri, perché l’uomo animale sociale non può vivere da solo. Ed è in relazione agli altri che l’uomo scopre le proprie capacità come i propri limiti e nel suo personale cammino lascia sempre qualche traccia dietro di sé. Tracce che vengono da un mondo interiore dove trova spazio il proprio credo spirituale e umano. Questo l’assunto di partenza di un nuovo ciclo di lavori, dedicati al tema della Natività.
“Non si può non ricordare il Natale tralasciando il martirio, la morte, il motivo per cui Dio inviò suo Figlio sulla terra. La sua nascita è legata alla rinascita, alla vittoria sulla morte grazie alla Resurrezione, icona di libertà dal peccato. La figura di Pilato è emblematica come la frase che pronunciò presentando il Cristo flagellato - Ecce homo disse - pensando che aver ridotto il Nazareno ad una maschera grondante di sangue fosse bastato ai farisei. Pilato avrebbe avuto il potere di cambiare il corso degli eventi ma non lo fece. Non riuscì a gestire il potere e, purtroppo anche se con formule diverse, la storia si ripete continuamente. Il Natale mi porta ad una riflessione sul ruolo del cristianesimo, sulla Crocifissione che è inscindibile dalla Natività e sul senso dell’esistenza in generale.”
La natività è da sempre un tema molto frequentato nell’arte che vanta capolavori assoluti: dalla rappresentazione affrescata da Giotto nella Cappella Scrovegni di Padova, alla tela di Lorenzo Lotto, ad esempio, che dipinse la devozione della Sacra famiglia inserendo in un angolo buio della grotta proprio il crocifisso. Alla Natività, purtroppo persa, del Caravaggio che dipinse una Vergine, donna e madre ancora prostrata dalla fatica del parto mentre guarda il suo Divino Bambino: in quella posa che non ha nulla di santo è racchiusa tutta la santità dell’evento ma anche l’inevitabile senso del dolore, di quel presagio di morte che è scritto anche nel destino del figlio di Dio. 
Sovrapposta alla precedente festività pagana del Sol Invictus, o a quella Ebraica detta Hanukkah, entrambe celebrate il 25 dicembre, la nascita di Gesù Bambino è la festa che celebra il miracolo della vita, l’unico che vede protagonisti anche noi poveri mortali; ma Cristo nasce per un miracolo ancora più grande, la Resurrezione che implica il sacrificio, il dolore, la morte.
“La vita è un insieme di emozioni e sensazioni contrastanti. É amore e disperazione, gioia e dolore, ma anche lotta e tensione verso la felicità. E’ quel che io chiamo il problema delle 24 ore.” E dal destino di dolore che Cristo trae la sua forza, ecco perché l’artista non sceglie di rappresentare il momento della nascita ma il simbolo del sacrificio, passaggio obbligato e scritto dall’Onnipotente perché quella frattura tra Dio e l’Uomo potesse essere colmata.
Come per la personale Tracce, l’artista sceglie di realizzare accanto ad alcune tele una composizione risultante dall’ assemblaggio di dodici moduli - 12 i mesi dell’anno, 12 gli apostoli - un enorme quadrato dove la tradizionale rappresentazione della Natività lascia il posto ad una composizione nuova, provocatoria. Al centro della tela una grande croce, rossa. E poi la frase Ecce Homo, le sigle SPQR, INRI che campeggiano in lungo e largo sulla tela, sovrapponendosi in alcuni punti, richiamando inevitabilmente l’attenzione sui loro significati reconditi. Il colore rosso sembra zampillare come stille di sangue, l’idea del sacrificio è intrinseca nella forma stessa della croce, affiancata da due scale: la scala di Nicodemo diventa per l’artista simbolo dello status sociale: “l’evento religioso della Crocifissione si insinua nella Storia, ne diventa parte integrante la persecuzione del Cristianesimo per la Roma imperiale fu un grande errore politico, l’inizio della fine... i Romani avevano già sconfitto altri popoli in precedenza inglobando la loro cultura; si pensi ad esempio a Cartagine, ma con Israele le cose andarono diversamente”. 
D’altra parte un sistema schiavista quale era l’impero avrebbe mai potuto accettare la religione che riteneva tutti gli uomini uguali? che gli ultimi sarebbero stati i primi? che bisognava amare il prossimo come se stessi? 
“L’uomo per natura è egoista e, nonostante siano passati tre millenni, senza contare i precedenti, pensa solo al proprio benessere, fa niente se per raggiungerlo deve schiacciare gli altri. Non è un caso che il pesce, simbolo di Cristo nell’iconografia cristiana, sia raffigurato in una forma ben lontana dalla stilizzazione classica perché nella sua grossezza ho voluto rappresentare la falsa ambizione di essere detentori della conoscenza. Da questo punto di vista siamo ancora nelle caverne, il nostro sguardo è dentro la grotta, non fuori. Le paure ancestrali che ci portiamo dentro sono sempre in agguato, la paura del buio come della solitudine, della sofferenza, della morte opprimono il nostro esistere e rendono sempre più problematiche le nostre 24 ore”. 
Il blu, colore spirituale per eccellenza, predomina nelle tele dove elementi simbolici come le scale rappresentano una società che continua a vivere in precario equilibrio tra croci che non sono grondanti di sangue ma, bianche o azzurre, rappresentano l’uomo con gli insoluti interrogativi di sempre, quelli che fecero nascere nell’antica Grecia la filosofia.... interrogativi come croci sparse nello spazio pittorico che diventa metafora del mondo, del tempo che viviamo. Il segno sempre più incisivo e materico definisce volumi che si sovrappongono sul piano in un rincorrersi di linee curve e spezzate quasi ad evocare il percorso difficile e tortuoso che è la vita per ogni singolo individuo e, per esteso, della comunità intera. I colori intensi, quasi violenti, diventano espressione dei sentimenti, delle passioni, delle sensazioni che affollano la mente e il cuore dell’uomo di tutti i tempi. 
Lo sguardo che l’artista prima rivolgeva ai luoghi dello spazio sono sempre più introiettati al proprio sentire, all’io che cerca di farsi strada tra il groviglio di pensieri che la vita stessa scatena. Ogni tanto qualche giallo/lampo di luce suggerisce il legittimo interrogativo ma una via di fuga esiste? 
“É la metafisica, il sogno. - La risposta decisa dell’artista- É nella spiritualità che l’uomo ritrova il coraggio e la determinazione per affrontare i propri demoni, di vivere la propria esistenza riscoprendo la consapevolezza che la forza della rinascita è la libertà del pensiero. Come insegna il messaggio evangelico la libertà nasce dalla sofferenza, dal dolore.” 
L’allestimento, curato dall’architetto Stefania Branca, affianca alla modulazione pittorica un’installazione così come accaduto nelle recenti personali tenutesi nell’atelier che, da luogo di ideazione e realizzazione dell’opera, si fa anche spazio interattivo con il pubblico. In virtù di un percorso che continua, tracce di gesso renderanno bianca la pavimentazione dove tra santini e rosari, icone di fede, ognuno potrà almeno per un momento riflettere sul significato più autentico del Natale. Un Natale lontano dalla festa consumistica, e non solo per il clima di recessione, ma perché traccia di una spiritualità ritrovata.































































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