DE GIOVANNI LUIGI a FIRENZE

DE GIOVANNI LUIGI a FIRENZE
La galleria Mentana di Firenze, in prossimità delle feste natalizie, come ogni anno, il giorno 16 dicembre 2023 dalle ore 17,00 alle ore 20.00 terrà l’opening di “Orizzonti Contigui” Rassegna di Artisti Internazionali che animerà lo spazio sito nel cuore di Firenze, in via della Mosca, 5. Orizzonti Contigui Attraverso le opere in mostra è possibile immergersi nelle descrizioni di pensieri, idee e sensazioni che danno luogo al mondo degli artisti presenti che, nella realizzazione delle opere, hanno trovano l’occasione per avventurarsi nelle sfaccettature della natura fatta di paesaggi e di atmosfere, per ritrovarsi nel mondo della fantasia o nelle problematiche dei percorsi dell’uomo, fino ad attraversare riflessioni o sogni che muovono dall’Io o dalla religiosità. Colori, pennellata e percorsi capaci di trasmettere il mondo della bellezza e delle contraddizioni dell’uomo che è sempre alla ricerca di quei valori che danno senso alle opere di questa bellissima rassegna artistica. L’evento sarà anche occasione per scambiarci gli Auguri di Natale. Artisti presenti in Mostra: Eva Breitfuss - Audrey Traini - Lis Engel – Giancarlo Cerri – Aldehy – Bianca Vivarelli – Krasimir S. Marinov – Eileen Herres – Valerio Tanini – Tina Hliblom-thibblin - Camilla Vavik Pedersen – Patrizia Pepe – Luigi De Giovanni – Salvatore Magazzini – Anna Lapshinova Galleria d’Arte Mentana Arte Moderna e Contemporanea Via della Mosca, 5r
50122 Firenze (Italia)
Telefono/Fax: +39 055 211985
Cellulare: +39 335 1207156
Email: galleriamentana@galleriamentana.it

sabato 18 febbraio 2012

SPAZI APERTI

http://degiovanniluigi.myblog.it/archive/2012/02/18/spazi-aperti.html


Galleria d'Arte Mentana
Piazza Mentana, 2/3r - FIRENZE- Tel. 055.211985 - Fax 055.2697769 
E-mail: galleriamentana@galleriamentana.it 
INAUGURAZIONE DELLA MOSTRA
SPAZI APERTI
SABATO 18 FEBBRAIO DALLE ORE 18,00 IN POI
Fino al 14 Marzo 2012
La serata sarà allietata da schiacciata alla fiorentina e vini del Castello di Verrazzano.
Artisti: 
Vincenzo Angelino, Ingo Ostersehlte, Tommaso Andreini, Armandi, Ece Kazan, Harriet Whyatt, Ulrike Panhorst, Carlo Scanagatta, Emilio Facchini.
SPAZI APERTI:
Testi a cura di Federica Murgia
Vincenzo Angelino 
E’ il palcoscenico dei pensieri che  si delinea nelle opere, di tendenza informale, di Vincenzo Angelino. Le sue sono scene dove le quinte e i fondali, creati da piani sovrapposti che interagiscono con le campiture di colore, danno luogo a sensazioni di spazialità che parlano d’atmosfere interiori: trame del racconto dell’Io. Le suggestioni cromatiche  descrivono armonie interrotte solo da pochi tagli neri incrocianti le preoccupazioni, che si palesano oltre il cielo frantumato delle forme. Nelle opere si avverte un lirismo sottile narrato da linee, che sfuggono all’esattezza dei tagli geometrici in irregolarità ed inserimenti d’elementi. Cartoni, pezzi di tela, ritagliati grossolanamente, sono diventati segni di profondità che esaltano le tinte dei piani sottostanti. La traiettoria di una cometa di cartone, che si allontana, seguendo  il suo percorso nell’universo, lascia intuire la scia lattiginosa di dubbi e d’angosce. Nella tensione del rosso, assurto a colore dei sentimenti forti, si avverte la passionalità di una ribellione interiore che vuole allontanarsi dai toni dorati delle apparenze per armonizzarsi con l’essere. L’artista ritrova nell’azzurro di un cielo ricostruito il lirismo di un racconto, dove la libertà dell’interpretazione pittorica dello spazio coincide con quella del suo spirito e della natura. 
Ingo Ostersehlte
La bandiera, del sol levante, si è colorata della tempesta che va allontanandosi nella desolazione di una spiaggia ferita. C’è l’idea di un “viaggio” in due valigie dimenticate, in un paio di scarpe messe una a fianco all’altra e nelle impronte, di piedi nudi sulla sabbia, che conducono al mare: uniche tracce di vita umana. Le increspature delle onde, che schiumano di pennellate luminescenti, raccontano di solitudine e di disperazione con la voce dei toni dei blu che si fanno sempre più cupi. Gli alti cavalloni abbandonano i colori del dolore per tingersi della gioia del sogno di librarsi su un dollaro diventato surf. Il temerario giovane, ancorato sulla metaforica tavola di ricchezza con i piedi, percorre i tunnel d’acqua per sbucare  nella speranza della felicità. Ingo si allontana dal mare per giungere alle note liberty che illuminano le notti russe nello scintillio dei vetri di Murano e degli Swarovsky. La stilizzazione di linee curve  che si arrotolano sino a creare dei cerchi magici di decorazioni, che inseguono segni ancestrali, sono occhi sporgenti che, nell’illuminare la scena, contrastano gli sfondi scuri ed opachi per raccontare un mondo meraviglioso di trionfo della luce sulle tenebre. 
Tommaso Andreini
Nel movimento dei salti dei cavalli, che si elevano verso l’alto spostando le criniere per seguire il vento dei colori che le fissano in ondulazioni di crini, si avverte la sintesi di una natura fremente di vita. I dipinti di Tommaso Andreini sono ceselli di pennellate sicure, che hanno dato ombre, volumi forme, diventate alchimie magiche che fanno udire i nitriti dei possenti destrieri che, imbizzarriti, mostrano le loro vigorose muscolature tese in uno sforzo di vittoria. Gli scuri presagi di Cassandra mandano invano un lampo di luce ad illuminare il corsiero dagli occhi ferini e ingannatori. Le trame fosche di dolore, per l’artista, sono diventate sprazzi di colore rosso di sangue raggrumato che segnano i confini striati dalla disperazione che si è impadronita della cinta della sconfitta. 
Risaltano armature e gualdrappe che creano cromatismi contrastanti nella giostra dei sogni che, sentito l’olifante, fanno incrociare le lance d’antica tenzone. Sono i corsieri di  speranze, vane, che si perdono nei sogni di volo di un vecchio che, in un aeroplanino di carta, trova la via di fuga dalla materialità di un corpo rassegnato al tempo ma, ancora, propenso alle illusioni. 
Armandi
Nelle sculture di Armandì  si ode l’eco di Sardegna che va di pietra in pietra, seguendo il Genius Loci che l’ha guidato nei colpi della mazza sullo scalpello. Opere che, nei tratti marcati dei visi malinconici, diventati maschere ancestrali, dove si avverte il dolore di un artista che descrive la sofferenza di un popolo, il Sardo, che ha dovuto subire una cultura altra, si allungano nelle attese di un mondo migliore. 
Le profonde scanalature, che incidono le figure,  sono la traslazione del racconto metaforico  delle ferite di un animo. La trasfigurazione della realtà, divisa fra luogo e storia, si coniuga all’animo dell’artista che, nel bifrontismo delle opere, racconta di sentimenti e religiosità d’essere. Le sue sono pietre, urli muti, che hanno preso vita in una madre che in un abbraccio racconta d’asprezze apparenti e d’amore universale segnato dall’attesa diventata rassegnazione. Sono opere che descrivono il valore della dignità, nel rimando alla fierezza nuragica d’impavidi guerrieri dagli scudi tondi, per esorcizzare lo sfruttamento moderno e l’abuso scriteriato di una meravigliosa terra.
I solchi profondi sui graniti, tracciati con forza, raccontano l’animo di Armandì, intimamente, simbiotico con la spiritualità della natura. 
Ece Kazan
Nelle ceramiche di Ece Kazan c’è il sogno d’oriente che si racconta in suggestive forme sapientemente decorate.  Sono oggetti  danzanti che, pur conservando tracce delle antiche funzionalità, sono diventati sculture con nuovi significati. Fiasche, bottiglie, sormontate da  dischi, segnati da spicchi dagli armoniosi toni, diventati corolle di fiori che si aprono  in graziosi  svolazzi su treti gonfi di vita, pare si muovano al soffio di una brezza melodiosa. Contenitori di desideri che raccontano di donna che usa la terra, la lavora, la trasforma donando eleganza e bellezza con la vetrina e i colori dell’animo. Piegamenti e incavi, fatti con delicate pressioni delle mani, sull’argilla ancora umida, originano forme che hanno spirito di vita. Le decorazioni  parlano di paesaggi duri che muovono con linee geometrizzanti per traslarsi in climi di libertà dove i colori grevi  assumono la gaiezza dello spirito in tonalità blu-violacee e note di verdi e d’arancio. Versatoi  che conservano, giustapposte, impugnature, raccontano di gusto del bello e d’eleganza compositiva ed ideativa. Le opere dell’artista sono un inno alla donna che sa far diventare le cose semplici e d’uso comune delle bellissime creazioni che parlano d’ingegno e d'arte. 
Harriet Whyatt 
Nelle opere di Harriet Whyatt si palesa un animo zingaro e rivoluzionario dove, sotto l’apparente festa gioiosa, si nasconde il dramma delle istanze sociali che premono per aver voce. Sono dei climi hippy che sanno di figli dei fiori che, ormai, si sono avviati alle cocenti delusioni date dai fucili contro la giustezza della pace e l’amore libero. Nei tratti espressionisti dei visi dei soggetti, segnati da grosse pennellate demarcanti i contorni, si legge un velo di malinconia stimolata dallo stordimento del fumo che li ha perduti nei paradisi artificiali. Corpi giovanissimi, di pubertà evidente, si vestono dei colori, rossi smorzanti in marroni e gialli, resi grevi dall’attesa delle delusioni dell’amore libero. Ragazze prigioniere dei sogni, intrappolate negli abbracci d’amori nomadi, hanno gli occhi spalancati all’incertezza del domani dove la fedeltà sembra essere diventata prerogativa, solo, dei poetici cani. Le fioriture dei tralci di rose, che affondano stabilmente le radici nel terreno, stridono con gli occhi gitani di giovani errabondi che viaggiano sui sentieri della libertà alla ricerca dell’armonia. Nella danza diventa caotica, al rullio dei tamburelli percossi dal tempo, c’è la perdita dei sogni di chi si è svegliato adulto. 
Ulrike Panhorst
Un’apparente estroflessione spaziale, dai toni cerulei, racconta di colore che scorre gocciolante, in solchi che scendono seguendo i percorsi della libertà sino all’esaurimento. I grigi degli sfondi conservano tracce cromatiche riconducibili all’illusione convessa che, donando movimento, aggiunge armonia alla narrazione pittorica. Nelle opere di Ulrike Panhorst si ritrova una casualità, solo apparente, di luci e di ombre che raccontano il suo animo e descrivono la sensibilità che la porta a vedere un universo nebuloso, primordiale, fatto da sfumature che, sovrapponendosi, permettono d’intravedere le velature sottostanti che conservano poetiche pennellate striate di speranza. Il colore è diventato la scia di copie interrotte che hanno lasciato i segni di sbavature digradanti in fughe dai tragitti  segnati. L’idea della perfezione, suggerita dal tratto del cerchio rosso diventato mandala, si perde in umane concezioni di sbavature che sfuggono al rigore della geometria scegliendo le vie da percorrere. L’Io dell’artista prende forma nella libertà dei segni lasciati dai bianchi: luci che sono riuscite ad insinuarsi illuminando il buio delle paure oscure. Nelle sue opere si avvertono i segni della riscoperta di una nuova spiritualità romantica. 
Carlo Scanagatta
L’artista rappresenta un mondo sospeso, di cui si avverte il disfacimento in un catino, in un vortice che, innalzandosi e arrotolandosi, fa presagire il peggio. L’onda inquietante e carica d’insidia pone dei perché a chi vede l’angoscia della fine e con lo sguardo velato di tristezza avverte il grido d’allarme contro l’inquinante dissennatezza tecnologica. Il salire e lo scendere nell’altalena della gioia è il momento di spensieratezza che emerge dalle prospettive di colore che si allontanano nel sogno, in sprazzi di verdi di speranza che trovano spazio in tracce di blu religioso contrastati con il calore passionale dei rossi che vengono illuminati da aspettative di felicità. 
Le simboliche mani, aperte alla vita, sostegno materiale, si dissolvono lasciando emergere bilichi e frantumi delle colonne della gioia. L”incredulità è nel sorriso della ragazza che cambia il colore di capelli ma questo non le basta per accettare un mondo rovesciato ed ambiguo dove l’esteriore è imperativo. 
Le fotografie di Carlo Scanagatta, rese in modo originale ed espressivo, sono opere che ci riportano a concetti di pittura dove pennellate e spatolate di mouse rendono surreali climi reali che si contraffacciano con l’inconscio.  
Emilio Facchini
Nelle opere di Emilio Facchini il buio dei tormenti si schiarisce nella fuga degli sfondi di piani prospettici, diventati descrizione dei paesaggi del suo inconscio. Il dolore prende forma nei colori cupi dei primi piani che descrivono la tensione che si esalta nella ricerca dell’allontanamento dal conformismo e dall’apparenza. I due corpi, che vogliono emergere dal buio, sono metafora di una lotta intima per sfuggire alle possenti mani, catene, che vorrebbero condizionare la libertà espressiva del suo essere pittore. I sereni colori dell’attesa di chi si è perduta nella vuotezza dei sogni si arricchiscono dell’espressività dei grevi colori della vecchiaia dove i protagonisti, solo a prima vista persi nella solitudine, sono in compagnia di una vita passata d’affetti sicuri. Lo scorcio della finestra dei ricordi si fa evanescente nelle masse diventate nubi che si sono gonfiate delle sofferenze per allontanarle dalla memoria.
L’artista si esprime con una pittura intimistica che nei simboli si esalta di spiritualità, dove 
le allegorie dei personaggi e dei colori descrivono l’uomo, granello di polvere dell’universo, che quotidianamente cerca di ritrovare l’armonia fra spirito e materialità.
Galleria D'Arte Mentana
Piazza Mentana, 2/3r - FIRENZE- Tel. 055.211985 - Fax 055.2697769 
www.galleriamentana.it E-mail: galleriamentana@galleriamentana.it 
ORARI: 11.00/13.00 - 16.30/19.30 
Domenica e Lunedi Mattina su appuntamento al  335.1207156 

lunedì 9 gennaio 2012

Un Natale reso speciale nella ricerca delle tracce di fede Il “Presepe vivente” nel Borgo antico di Specchia nel segno della devozione e della spiritualità: Natale 2011

Un Natale reso speciale nella ricerca delle tracce di fede Il “Presepe vivente” nel Borgo antico di Specchia nel segno della devozione e della spiritualità: Natale 2011

Un Natale reso speciale nella ricerca delle tracce di fede Il “Presepe vivente” nel Borgo antico di Specchia nel segno della devozione e della spiritualità: Natale 2011

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Un Natale reso speciale nella ricerca delle tracce di fede
Il “Presepe vivente” nel Borgo antico di Specchia nel segno della devozione e della spiritualità: Natale 2011

Un attivismo generale aleggiava da giorni nel borgo e cominciava ad avvertirsi un clima che sapeva di mistico  e di festoso. Nelle viuzze si studiavano le architetture per le scene del presepe vivente. Nella piazza un immenso braciere, colmo di tronchi, era nell'attesa della pira, forse per scaldare il Bambinello o per trarne le previsioni sull’andamento delle coltivazioni. Molti turisti vi giravano intorno immaginando la “focaredda”, le fiamme che ne sarebbero scaturite e soprattutto il tepore che avrebbe  diffuso tutto intorno, tenuto conto delle temperature piuttosto rigide. Fui incuriosita da tutta questa vitalità. Cominciai a gironzolare nelle vie del centro storico riscoprendo le antiche costruzioni e la suggestione di suggerimenti di arie del passato. 
I giovanissimi di AC, nella chiesa madre, avevano approntato un insolito bellissimo presepe. Avevano usato vari formati di pasta per gli edifici e i personaggi, mentre i chicchi di riso stavano al posto del muschio a creare delle superfici ghiaiose, bianche di neve e scure di ciottoli. Una capanna di lasagne, che accoglieva il Bambinello in una mangiatoia di pasta agli spinaci, la Madonna, San Giuseppe, il bue e l’asinello, tutti fatti di pasta di piccoli formati, erano illuminati da una flebile luce che dava delle suggestioni di trasparenze traslucide. Era un presepe che sapeva d’amore, devozione e di  gioia di regalare un messaggio di fede. C’era una ricerca dello spirito che si ritrovava, anche, nelle “Tracce di Fede”, mostra allestita da Luigi De Giovanni, dirimpetto alla chiesa, Sutta le Capanne Du Ripa.  
La sera del 25 dicembre, alla presenza delle autorità religiose e civili, si formava il corteo dei personaggi che andavano a posizionarsi nelle scene. 
Dopo tanto lavoro, s'inaugurava il presepe vivente, dislocato nelle antiche stradine, che occupava le case dalle volte a stella e a botte. 
Scelsi di seguire le fasi dell’inaugurazione alle porte di Betlemme, cioè dalla piazza degli artisti. 
Attesi l'arrivo degli imponenti soldati romani che, per meglio rendere le situazioni, in alcune piazze, fecero dei duelli molto scenici. Indossavano le divise d’ordinanza, i mantelli rossi, elmi, lance e scudi rettangolari che mi fecero tornare in mente le formazioni di combattimento a testuggine, in uso nelle azioni di battaglia dell'antica Roma. Immaginai le conquiste e a quanto terrore veniva incusso alle popolazioni occupate. 
I soldati bussarono alla porta di Betlemme attesero la risposta e quando l’ottennero si avviarono maestosi al loro campo. 
Una folla immensa spingeva verso l’ingresso del presepe ma un servizio d’ordine, molto efficiente, regolava il flusso delle persone. 
Finalmente arrivò il mio turno e così mi ritrovai in uno scenario che riportava a circa 2000 anni a.C.  a Betlemme: nel suggestivo “Presepe vivente” del Borgo antico di Specchia. 
I soldati romani si erano ormai acquartierati nel loro accampamento, accompagnati dalle loro eleganti matrone. Nello spiazzo c’erano ceppi di legno e fuochi accesi. C’erano i bambini, che con gli abiti che rispecchiavano il periodo rappresentato, si affaccendavano in varie mansioni e nella loro poetica innocenza ben interpretavano i ruoli assegnati. Con una padella per le caldarroste arrostivano i pomodori per metterli sopra a dei piccoli pezzi di pane, abbrustolito con una graticola, che poggiavano sul piano superiore di una vecchia botticella, per offrirli al pubblico che gradiva e ringraziava felice. Qualcuno mangiava con gusto delle "pittole". Altri trasportavano degli arbusti dando una sensazione generale d'attivismo continuo. 
Proseguendo mi ritrovai dal “Conza Limmi”, riparatore di terre cotte che, nel suo laboratorio, con una sorta di trapano chiamato qui "trapanaturo", strumento a me sconosciuto, forava i pezzi di coccio per ricomporre antichi oggetti. Molto diligente mi appariva il suo aiutante che eseguiva con perizia i compiti assegnati. Non era possibile sostare a lungo nella scena perché la folla lo impediva perciò usci, attratta dalle voci degli addetti al censimento che, nella viuzza, invitavano i cittadini a  registrarsi per la prima volta nella storia: molti firmavano lasciando traccia del loro passaggio. 
Mi resi conto che andavo seguendo il flusso delle persone con curiosità crescente. Alcune volte non riuscivo a leggere le indicazioni esplicative, così entrai in una stalla poco illuminata, che sapeva di fieni e di lavoro. Scorsi un placido cavallino bianco, dietro ad un carretto, che assaporava la biada preparata con amore e curiosità giocosa da bambini felici d’usare strumenti appartenuti ai bisnonni. 
Il clima degli ambienti mi pareva investito da un romanticismo insito nelle cose e nei profumi che si avvertivano. Era un racconto di vita dimenticata che, grazie alle scene del presepe vivente, veniva riscoperta e riamata. 
Fra arcolai e telai si muovevano con sicurezza tessitrici di varie età che riuscivano a donarci un’atmosfera del passato che ci faceva riflettere sull’opportunità di riappropriarci degli antichi mestieri. 
Era lo scatto tipico dei pettini all’opera che dava ritmo alle tessitrici che, dopo aver mandato con decisione la spoletta fra i fili, davano consistenza ad ordito e trama dei tessuti di canapa e lino grezzo che si andavano formando. Una sensazione di nostalgia m’investì per un mondo antico perduto, che mi appariva di grandissimo lavoro per le donne ma di gran fascino per le cose che riuscivano a tessere. Un inebriante profumo mi annunciò l’ingresso nell’osteria dove la scenografia appropriata era disturbata solo dall’eccessiva folla che spingeva per non perdere l’occasione di degustare il vino genuino accompagnato con assaggi di pietanze tipiche. Uscendo da qui un po’ ebbri ci s'imbatteva nella casa degli scribi, che forti dei loro strumenti di potere (inchiostro, penne e pergamene), erano intenti a svolgere la loro funzione e facevano riflettere sul significato dell’istruzione e della conoscenza nonché sulla fortuna, troppo spesso non compresa da molti giovani, di vivere in un periodo in cui non dovrebbe più esistere l’analfabetismo.  
Alcune scene riguardavano le attività indispensabili per la vita che erano fatte, soprattutto, dalle donne che avevano, sin dai tempi remoti, dovuto impegnarsi facendo grandissimi sacrifici rivelatosi utili all’evoluzione dei costumi e degli stili di vita. Un balzo all’indietro nel tempo che ci ricordava come le nonne e le mamme, con antichi utensili, lavavano, stendevano, cardavano, pettinavano e filavano la lana, prima di tesserla per farne indumenti, coperte e biancheria per la casa. Per questa ragione trovai molto interessante, anche per la pazienza delle figuranti che spiegavano le fasi di lavoro, le scene dove una giovane donna stirava con un antico ferro riscaldato con la brace, mentre un’altra lavava, con impegno, dei panni dentro un contenitore in pietra. La lavandaia aveva cura di tenere il fuoco acceso per scaldare l’acqua in una caldaia in rame. La osservavo mentre raccoglieva con attenzione la cenere per poi metterla sopra un panno, che ricopriva un contenitore in terra cotta colmo di biancheria lavata su cui versava l’acqua calda al fine di sbiancarla. Da un’apertura posta alla base del cofano colava l’acqua che veniva raccolta in un recipiente in coccio per usarla per lavare i capelli. Capii, finalmente, il significato di lisciva e la fatica che si faceva per avere la biancheria candida. 
Nel vedere i giovani addetti alla costruzione delle candele, che, in verità, avevano un aspetto piuttosto irregolare e tendevano ad allargarsi in modo eccessivo verso il basso, immaginai le antiche case senza la corrente elettrica e come le persone che le abitavano riuscivano comunque a fare tante cose come leggere, ricamare. Un tocco eccelso lo ritrovai nell’annunciazione, scena dai colori pastello, che evidenziava la spiritualità di bambini angeli preganti con Maria adolescente. La narrazione di un annuncio di grandezza assoluta era così bella che mi sembrava ammantata da un velo di trascendenza. 
Mi riportò alla realtà il rumore di un forte battere di un martello sull’incudine che mi condusse all’officina del fabbro, intento a forgiare dei metalli arrossati dal calore di un fuoco tenuto vivo da un mantice azionato da un attento apprendista del mestiere. La recitazione era realistica e mi soffermai ad osservare la serietà con la quale erano eseguite le azioni. Dietro l'officina c'era una pianta di limone, che trovava vita in un’aiuola diventata il fondale di un palcoscenico. In bell'evidenza erano disposti gli antichi e arrugginiti ferri da lavoro: picchi, zappe, rastrelli, palette, martelli eccetera. 
Laboratori di pittori, scultori e artigiani,  erano animati da nuova creatività suggerita, anche, dall’evento e dal tempo che dovevano interpretare.
Gli artigiani, che vestivano i sobri panni che si presumevano in uso fra le persone di circa 2000 anni fa, si affaccendavano nella preparazione di formaggi, orecchiette, minchiareddi diffondendo nell’aria stimolanti aromi.
Nella sua botteguccia, si udiva il ticchettio del martello che usava il calzolaio  intento ad aggiustare le scarpe, aiutato da un solerte apprendista che sistemava lesine e spaghi. Il falegname, che non poteva mancare vista la professione di San Giuseppe, continuava piallare e a levigare le superfici degli assi,  approntandoli per nuovi manufatti. 
Uno scenario sontuoso attirò la mia attenzione portandomi alla festa per il matrimonio di Maria e Giuseppe, che prese con se la sua sposa per ordine dell’Angelo del Signore, allestita, in un clima celestiale, in una corte dalle tante tende, dove i figuranti, molto giovani, dispensavano gentili sorrisi. 
Più in là i venditori d'ortaggi, che s’incontravano nelle stradine, dai banchetti, invitavano a gran voce all’acquisto dei loro prodotti creando situazioni veristiche. 
Intanto, nella sinagoga illuminata da un candelabro a sette braccia, dei giovani, che impersonavano i sacerdoti, erano intenti alla lettura delle sacre scritture antiche. 
La scena della visita di Maria ad Elisabetta, anche lei incinta nonostante l’età, era stata allestita con semplicità  e garbo cercando di ricreare la situazione. Le figuranti,  sedute, pareva che avessero ben chiare le parti da interpretare, tanto che Elisabetta appariva rispettosa e meravigliata per la visita della madre del Signore. L’ambiente era caratterizzato, come in molte altre scene, da tendaggi, pochi suppellettili, come si presumeva poter essere una casa del tempo dei fatti narrati. 
Le varie botteghe o i banchetti, approntati allo scopo, riportavano in un’epoca lontana con  semplicità e naturalezza. 
Delle bravissime ricamatrici creavano i loro merletti e ricami, mostrando con i loro gesti sicuri non solo capacità manuali ma anche grandissima devozione. 
I cestai preparavano "cannizzi e panari" di varie forge, alcuni dei quali veramente belli. Una nota d’oriente si avvertiva nel lieve profumo  di cannella delle “cartellate” mentre un buon odore di fritto annunciava le “pittole”: attrazione di molti turisti che le gustavano con piacere.
La cosa che maggiormente mi colpiva era l’affaccendamento generale e la partecipazione fatta con il cuore e con la sicurezza che ricreare un clima del tempo della nascita di Gesù era un modo per far rifiorire la fede. 
Nella parte più vecchia del borgo m’incantai nell’osservare gli scorci. Seguivo il percorso, attratta dalle affascinanti architetture, quando m’imbattei in dei bottai che, nella semioscurità di una piazzetta, sistemavano doghe e cerchi  con martelli di legno. In quello che facevano si coglieva la serietà di chi aveva un incarico importante da portare a termine, infatti, preparavano le botti, forse, in vista del travaso del vino. 
Le musiche orientali mi guidarono alla casa di Erode che, pur turbato dalle  profezie, dava la sua festa pagana dove si manifestava la corporeità di giovani odalische che danzavano amicanti con gli uomini: che partecipavano consci dei piaceri che avrebbero ricevuto.   
Un folto gruppo di pastori, ricevuta la notizia, seguiva la via della cometa per giungere per tempo a godere del fausto evento. Erano impersonati per lo più da bambini che, guidati in formazione, portandosi appresso i loro animaletti, seguivano la stella, per onorare il nascituro Gesù,  creando  un clima di movimento in tutto il presepe. 
La stella si vedeva aldilà della vigna della piazza, simbolicamente piantata nel ricordo dei frutti che sarebbero serviti per l’Eucarestia, bastava seguirla per trovarsi con i greggi al pascolo, l’asinello che, placido per aver condotto alla meta la sacra famiglia, mangiava la sua biada. 
Il fascio luminoso della stella invitava oltre l’ingresso del castello facendomi giungere alla stalla, attraverso un percorso che annunciava la poesia dei ricordi biblici. Una scenografia essenziale,  captava il clima che poteva ritrovarsi in una stalla dell’antica Betlemme, era stata capace di emozionarmi sia per il simbolismo rappresentato che per il sapiente modo con cui era stata preparata. La scena madre della natività era un gioiello di religiosità  che ci riportava alle tracce della storia che raccontava del Natale. L’allestimento era, un misto di spiritualità e povertà. Non rispecchiava appieno il presepio inventato da San Francesco che traslò in un racconto plastico gli eventi di Betlemme e aggiunse degli elementi scenici utili svegliare le coscienze e a dare nuovo spirito alla fede in un periodo d’analfabetismo e d’allontanamento dalla chiesa. 
Nel presepio, di Specchia, erano stati rappresentati  gli eventi della nascita di Gesù, seguendo lo spirito e gli elementi indicati nei Vangeli, soprattutto in quello di Luca. Il placido bimbo, inconsapevole interprete di Gesù, dormiva beato nella mangiatoia, sopra il vello d’agnello, come se fosse da sempre stata la sua comoda culla. 
Così, vista l’eleganza e la religiosità insita in tutto il presepe, mi piace fare un meritato plauso all’Associazione Culturale Sportiva “Eugenia Ravasco” Onlus per aver  realizzato l’intero evento del presepe la cui cura della scena della natività era affidata all’architetto Stefania Branca che, coadiuvata, per le voci, da Francesco Ungaro e Edoardo Baglivo, con le sue scelte di semplicità ed essenzialità, ha saputo dare un tocco d’eleganza e di devozione senza orpelli.  
In questo periodo di materialismo, dove l’apparire è più importante dell’essere, in cui la religiosità è dimenticata, ho ritenuto molto interessante l’esigenza di una meditazione sulla fede. L’aver trovato, dopo l’ultima scena del presepe, delle “campane” con megafoni direzionali da cui si udiva “il discorso della montagna”, riguardante il concetto del perdono, soprattutto dei nemici, in un ambiente in penombra, è stato molto positivo. Solo chi passava, casualmente, sotto le prime tre campane, sentiva chiaramente il messaggio e sceglieva di fermarsi o di proseguire. Un privilegio che si stemperava all’uscita, quando sotto l’ultima campana, tutti potevano goderne e scegliere di fermandosi ad ascoltare: cogliendo l’occasione di fare una riflessione spirituale. 
I Re Magi, mossisi da paesi lontani, portando i loro simbolici doni a Gesù,  erano in cammino, seguendo la stella, per giungere alla santa stalla in un rituale di simbolismi, che a noi piaceva interpretare come un messaggio d’invito alla bontà, alla pace e alla riscoperta della spiritualità: fondamento della vita dell’uomo.
Felice d’aver potuto assistere, nello scenario, molto naturale del Borgo antico di Specchia, a questa curata e bellissima IV edizione del “Presepe  vivente”, sento di dover rivolgere ringraziamento speciale, per averci fatto sentire magico questo periodo, all’Associazione Culturale Sportiva “Eugenia Ravasco” Onlus in collaborazione con la Parrocchia della Presentazione della Vergine Maria, al Comune di Specchia e GAL Capo S.Maria di Leuca, agli Agorà Canti Antichi, all’Azione Cattolica, all’Associazione San Nicola di Myra, al Coro Jubilate Deo, al Coro Eratùs, al Coro degli Angeli, all’Apostolato della Preghiera, alle Catechiste e alla FIDAS Specchia, alla LILT Specchia, al Piccolo Teatro Spontaneo Specchiese “La Ribalta” e al Volontariato Vincenziane.
A conclusione mi piace citare il bellissimo “Gran Concerto di Natale”, diretto dal M° Deborah De Blasi, con il “Coro degli Angeli” della Parrocchia di Specchia e il Coro Parrocchiale di Taurisano, tenutosi il giorno 4 gennaio 2012 nella Chiesa Madre di Specchia, che ha proposto le più belle canzoni del Natale, donandoci un meraviglioso momento d’armonia.                                                                      Federica Murgia
Specchia 6 gennaio 2012

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